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La sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale: analisi delle motivazioni

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E’ arrivata la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale che conferma tutte le riflessioni negative che avevamo avanzato al momento delle pubblicazione del dispositivo: la Corte ha girato intorno al tema senza affrontarlo seriamente ed ha prodotto un pasticcio peggiore di quello che c’era prima. I punti su cui la sentenza fa acqua sono due: quale sia il margine di torsione sostenibile del principio di rappresentanza ed i limiti posti dalla forma di governo al legislatore.

Sul primo dei due, la Corte si limita a stabilire che il premio di maggioranza della essere “ragionevole, che è come dire “fate voi”: ragionevole è solo una parola, ma qui ci vuole un numero. Se non si indica una soglia numerica o un criterio, la parola ragionevole non significa nulla. E’ come se in una causa si lavoro il giudice sancisse che effettivamente il lavoratore ha diritto ad un salario equo, senza quantificare una somma da corrispondere. E tanto peggio se si resta sul vago sull’effetto cumulativo del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento sull’indice complessivo di disrappresentatività. Quindi il problema dei limiti in cui il legislatore deve tenersi per non superare il punto di torsione massimo oltre il quale si viola il principio di rappresentanza è posto, ma non è risolto. Aspettiamo che i supremi giudici si diano a qualche lettura matematica.

Seconda questione, dove si rivelano con maggiore chiarezza le troppe carenze di questa decisione della corte, è quella relativa alla questione della governabilità. La sentenza auspica che i sistemi elettorali ci Camera e Senato siano armonizzati al fine di garantire la governabilità attraverso coalizioni omogenee. Una pura petizione di principio, priva di qualsiasi contenuto reale. In primo luogo l’omogeneità delle coalizioni non è determinabile in astratto, ma nella situazione concreta, sulla base dei problemi che si pongono momento per momento: nell’epoca del centrismo e del centro sinistra, le coalizioni si reggevano sulla doppia discriminante dell’anticomunismo e dell’antifascismo, coalizzando forze cattoliche, laiche e socialiste che, per molti versi non erano affatto omogenee fra di loro. In altri momenti la maggioranza (ma non il governo) fu aperta al Pci o alla destra. Per restare a tempi più recenti, il governo Monti era sorretto da un arco di forze che andava da Forza Italia al Pd e lo stesso fu, sino ad un certo punto, per il governo Letta che includeva organicamente quei partiti. Erano coalizioni omogenee? Quale tribunale potrebbe stabilirlo se non il corpo elettorale?

Ma l’eventuale premio di maggioranza dovrebbe servire appunto a dare una più generosa rappresentanza ad una coalizione più ristretta ed omogenea. Solo che il nostro particolare sistema costituzionale, basato sul bicameralismo funziona solo con coalizioni formate dopo le elezioni e non prima, per la semplice ragione che non è scritto da nessuna parte che la stessa coalizione debba per forza vincere in entrami i rami del Parlamento e, quindi, se si determinasse una sorta di “anitra zoppa” (come è stato nel 2013 e come si è andati molto vicini nel 1994) diventa necessario allargare la coalizione ad altri. E l’eventuale premio non risolve, ma complica il problema, perché può darsi che una coalizione lo ottenga alla Camera ed un’altra al Senato. Uno spostamento di voti popolari, anche molto ridotto, per un particolare gioco di distribuzione potrebbe causare uno spostamento di seggi che produce maggioranze di diverso colore nei due rami.

La Corte auspica l’armonizzazione dei sistemi elettorali, ma, pur applicando la stessissima formula matematica, ci sono diversità forzate dal testo costituzionale che individuano corpi elettorali diversi (al Senato non votano le classi di età da 18 a 25 anni) e differenze di ambito territoriale (al Senato necessariamente su base regionale, alla Camera solitamente nazionale). Ragion per cui il nostro sistema costituzionale funziona correttamente solo con coalizioni formate ex post rispetto al voto e questo rendere inopportune tanto le coalizioni quanto i premi di maggioranza che complicano la formazione delle coalizioni.

L’errore concettuale compiuto nei prima anni novanta fu quello di pensare che una legge elettorale maggioritaria avrebbe prodotto un formato bipartitico del sistema politico. Ma, già all’epoca, Giovanni Sartori (autore che non amo, ma di indiscutibile competenza) avvertì che una legge maggioritaria è utile a conservare un formato bipartitico dove esso già esista, ma da sola non è in grado di produrlo. E infatti, il tentativo è ampiamente fallito, in primo luogo perché non abbiamo avuto un bipartitismo ma un ben più modesto bipolarismo articolato su coalizioni, per cui la forma di governo di coalizione della prima repubblica (Guarino) che si voleva cacciare dalla porta, è poi rientrata dalla finestra. In secondo luogo, perché si sono sempre state forze esterne alle due coalizioni maggiori che, pur senza essere competitive, totalizzavano spesso fra il 15 ed il 20% dell’elettorato. Alla fine, il sistema politico ha assunto un formato tripolare, con l’arrivo del M5s, che ha definitivamente mandato per aria il progetto bipolare, per ridare attualità al quale occorrerebbe una radicale revisione costituzionale che trasformi la nostra forma di governo da parlamentare in presidenziale e, comunque, non è detto che riesca. Comunque , dopo il 4 dicembre, direi che sarebbe sconsigliabile intraprendere questa strada.

Ma se il sistema funziona normalmente con governi di coalizioni costituiti dopo il voto, allora il maggioritario non ha senso e l’unico sistema elettorale omogeneo a quello costituzionale è quello proporzionale.

La Corte era chiamata a misurarsi con questi nodi, ma non lo ha fatto, preferendo , poco coraggiosamente, nascondersi dietro il dito delle parole generiche e vaghe e degli interventi chirurgici su questo o quel pezzo e noi siamo in pieno marasma elettorale.
Aldo Giannuli

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